Concorso Prosa Viva 2004

Concorso Prosa Viva

Concorso di scrittura

per le classi prime, seconde, terze liceo e per le classi quinte ginnasio

4a edizione – 2004

Gli insegnanti di italiano del liceo organizzano un concorso tra tutti gli studenti delle classi del liceo e delle quinte ginnasio, finalizzato alla redazione di un racconto su explicit dato.
I testi, che dovranno recare un titolo, non dovranno superare il limite di tre/quattro colonne di foglio protocollo.

– Il concorso si svolge in due fasi:

1. la prima si configura come compito in classe, valutato dal rispettivo docente di italiano e regolarmente registrato tra le prove curricolari. I singoli docenti possono proporre, in aggiunta a quello del concorso, altri temi fuori concorso. Ciascun docente può segnalare due finalisti in ciascuna classe, a proprio insindacabile giudizio. Le prove si svolgeranno in contemporanea, sulle stesse tracce, per la durata di 3 ore di lezione, martedì 10 febbraio 2004 dalle ore 8 alle ore 11, con l’assistenza dei docenti in orario nelle singole classi. Per l’ammissione alle finali è indispensabile conseguire almeno la piena sufficienza.

2. la seconda fase (finali, da svolgersi entro il 3 marzo) consisterà nella consegna dei testi segnalati dai docenti, redatti dai finalisti stessi in forma dattiloscritta in tre copie, alla giuria del premio, attraverso i prof. Grosselli o Marchesi; i testi saranno consegnati anonimi insieme a una busta chiusa contenente nome, cognome e classe del concorrente; la classifica finale verrà decisa entro i primi di aprile da una giuria designata dal Consiglio di Istituto. La giuria non esprimerà valutazioni sui testi, ma si limiterà a disporli in graduatoria secondo il proprio insindacabile giudizio. I docenti di italiano segnaleranno al consiglio di classe, che ne terrà conto ai fini della valutazione finale e dell’eventuale credito scolastico, i nominativi e la posizione dei finalisti nella classifica finale.

I primi quattro classificati riceveranno euro 250, 200, 150, 100 rispettivamente, in buoni per l’acquisto di libri o audiovisivi; ai primidieci classificati verrà rilasciato un attestato. La giuria può decidere di non assegnare il premio. I testi classificati sarannopubblicati a cura dell’Istituto e diffusi tra le componenti scolastiche.

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La giuria:

Ivan Berni

Alessandro Mazzini

Roberta Ulano

Testo del racconto assegnato ai concorrenti

Gianni Celati, LA CITTÀ DI MEDINA SABAH

(da Narratori delle pianure, Milano, Feltrinelli 1993)

Un giovanotto di Mirandola, in provincia di Modena, aveva studiato per diventare ingegnere. Quando è diventato ingegnere è stato assunto in una fabbrica di ascensori, e quasi subito è stato mandato in Africa a installare e collaudare un impianto di ascensori in un palazzo governativo.

È partito, e dopo la sua partenza di lui non si è più saputo niente per tre anni. Quando è tornato ha venduto il podere di suo padre e ha impiantato una piccola fabbrica; ma non voleva mai parlare di quello che gli era successo in Africa, né dire in che paesi era stato.

Un giorno ha deciso di sposarsi e il padre della sposa gli ha detto: “Io conoscevo tuo padre e sono contento che sposi mia figlia, ma darò il mio consenso al matrimonio solo quando mi avrai raccontato cosa ti è successo in Africa.”

Il giovanotto ha risposto che avrebbe raccontato la sua storia solo il giorno del matrimonio e non prima, e così è stato. Durante il banchetto di matrimonio ha raccontato cosa gli era successo in Africa.

Aveva caricato su due camion il materiale da installare e stava percorrendo una strada lunghissima e tutta dritta vicino a un confine; con lui c’era un accompagnatore yoruba che lo informava su tutto ciò che vedevano.

Poi erano fermi all’ingresso d’un villaggio e sentivano una musica venire da lontano. Lui e l’accompagnatore yoruba e i due camionisti wolof si avviavano a piedi verso quella musica; e in una stradina erano accolti da donne indigene, che li invitavano in una casa e servivano loro da bere e da mangiare.

Sono rimasti in quel posto per una settimana, serviti dalle donne indigene sul patio d’una grande casa di legno, da dove sentivano distintamente notte e giorno il suono della musica. Mangiavano e dormivano e alla sera andavano a visitare le strade della città. Lui chiedeva al suo accompagnatore yoruba: “Ma dove siamo?” L’accompagnatore rispondeva: “Siamo nella città di Medina Sabah,” ma non voleva dirgli altro.

Nelle strade c’erano bande di bambini che correvano urlando e cantando, e l’accompagnatore spiegava che i bambini inventano quasi tutte le canzoni. Poi spiegava: “L’orchestra della Grande Nonna che senti in distanza è formata da cinquanta donne che suonano tutti gli strumenti, ed è diretta dalla Grande Nonna che ha novant’anni. I bambini gridando inventano ogni giorno nuove canzoni, che poi l’orchestra della Grande Nonna suona con cinquanta strumenti. Viene anche gente a registrarle e le diffonde in tutto il mondo.”

Quando lui ha chiesto di vedere la grande orchestra di donne, gli è stato detto che non si poteva. Seduto sul patio della casa poteva ascoltare quella musica notte e giorno senza interruzioni, e mangiare e bere senza spendere un soldo; ma non si poteva andare a vedere l’orchestra della Grande Nonna.

Dopo una settimana lui ha abbandonato i suoi compagni, ed è tornato a piedi sullo stradone. Qui ha trovato che, dei due camion, ci restavano solo le cabine e i cassoni vuoti; tutto il resto era stato rubato.

Arrivato nella capitale denunciava il furto e veniva immediatamente messo in prigione, perché il materiale da installare era del governo e lui ne era responsabile.

In prigione, dove è rimasto per più d’un anno, ha fatto amicizia con un raccontatore bandial, che era in prigione perché non aveva voluto accettare il controllo delle cooperative dello stato sul suo raccolto; era venuto nella capitale per parlare con i dirigenti delle cooperative, ma due poliziotti l’avevano subito arrestato.

Costui gli ha spiegato la differenza fondamentale che c’è tra i raccontatori di storie, come lui, e i griot, che sarebbero dei narratori di genealogie.

Il raccontatore bandial non si fidava dei griot, perché sono tutti falsi e inventano le genealogie delle famiglie o dei capi di stato, facendosi pagare in anticipo e poi inventando quello che vogliono. Siccome inventano quello che vogliono diventano potenti.

I raccontatori di storie invece non inventano quello che vogliono, devono attenersi a quello che dice la storia. E a un raccontatore non si può chiedere: “Ma è vera la tua storia? è veramente successo così?”, perché sarebbe una grande offesa. Loro raccontano esattamente quello che dice la storia, non quello che s’inventano loro.

Un giorno nei corridoi della prigione il raccontatore bandial ha visto un griot diola, e l’ha subito riconosciuto perché aveva la capacità di riconoscere un griot a colpo d’occhio, anche se lo vedeva da molto lontano. Gli ha gridato: “Ehi, griot, ti ho visto! “, e il griot è scappato a nascondersi dalla vergogna.

Il raccontatore sapeva tutto su Medina Sabah. Gli ha raccontato come succeda spesso che i camionisti arrivino su quella strada con i camion pieni di riso o arachidi, si fermino attirati dalla musica, e seguendo il richiamo della musica vengano accolti dalle donne. Le donne offrono loro da bere vino di palma e da mangiare riso e pesce per giorni e giorni, e quando i camionisti tornano sulla strada il loro carico è scomparso e i camion sono senza motore e senza ruote.

Il raccontatore diceva anche che ci sono dei camionisti che sanno benissimo a cosa vanno incontro, non appena mettono piede a Medina Sabah; e sanno che dopo finiranno in prigione per aver perso il loro carico e il loro camion; però non rinuncerebbero per niente al mondo al piacere di seguire quella musica, e di farsi servire dalle donne restando ad ascoltare in distanza l’orchestra della Grande Nonna.Il raccontatore bandial ha confermato che tutte le canzoni sono inventate dai bambini che giocano per le strade. Ma, a differenza d’altri villaggi, lì c’è quell’orchestra di cinquanta donne che raccoglie le canzoni e le suona, così che tutti possono ascoltarle notte e giorno. E i manager dei più famosi gruppi musicali vanno a registrare queste canzoni che si sentono nell’aria; poi un cantante famoso le mette in un disco e si appropria di quella musica.

Ci sono dei cantanti che in questo modo sono diventati tanto famosi e tanto potenti da poter sfidare il governo. Ce n’è uno che è più potente di qualunque rock star in tutto il mondo, e s’è costruito una grandissima fortezza dove la polizia non può entrare, dove la gente vive secondo la sua legge e lui può condannare a morte chiunque.

Questa è la grande potenza delle canzoni, che prima attirano i camionisti e poi si diffondono in tutto il mondo.

Quando lo sposo ha finito di raccontare la sua storia al banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un gran silenzio. Il giorno dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo prima di rivelare cosa gli era successo in Africa; il raccontatore ha risposto che lui non sopportava le chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti.

I vincitori del concorso Prosaviva

 Gabriele Colombo 3 G – 1° classificato PROFUMO DI CORIANDOLO E CANNELLA

“Non mi hanno costretto, né minacciato di morte: a volte un invito gentile è mille volte più efficace di un ordine. Quando la donna del villaggio me l’ha proposto, ho assaporato il gusto della libertà, e non ho saputo resistervi. In quella tenda in Africa ho scoperto che la libertà non ha l’odore stantio dei trattati filosofici, né quello fresco di un grande prato in una giornata di sole. La libertà ha un gusto speziato, è morbida al tatto e profuma di coriandolo e cannella.

La donna mi disse che quello che stavo per fare era un atto d’amore, che con quel gesto avrei regalato l’immortalità a un uomo. Ridando vita alla morte. Ma a convincermi non furono le sue parole, così ingenuamente ostinate nel cercare nel mio gesto segni di amore e generosità. Ho compiuto quello che a voi sembrerà il più truce dei delitti per un impeto di egoismo assoluto. Per concedermi la libertà dal più terribile dei tabù.

Il primo boccone l’ho ingoiato combattendo contro il rosso accecante che mi ottenebrava la mente, cercando in modo disperato di cancellare quel filtro, dettato dalla suggestione, che mi faceva vedere ogni cosa come immersa in un viscoso plasma purpureo, evocando in me sensazioni macabre e funeste. Ma già al secondo l’odore forte e pungente della cannella scioglieva la patina rossastra dell’ambiente circostante, ed io potevo finalmente gustare i sapori esotici di ciò che la donna mi portava alla bocca.

Sono uscito dalla tenda quella sera con un gusto speziato in bocca, qualche etto di carne in più nel corpo e una strana sensazione di leggerezza. Non credo di aver dato un contributo all’immortalità dell’uomo di cui ho mangiato il corpo. Fingendo di aderire alle assurde credenze su cui si fonda quello strano rito a cui ho partecipato, ne ho celebrato un altro nello stesso momento. Nella mia privata cerimonia ho infranto il più grande dei tabù, e assieme ho conquistato la più vera delle libertà.”

Quando lo sposo ha finito di raccontare la sua storia la banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un gran silenzio. Il giorno dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo prima di rivelare cosa gli era successo in africa; il raccontatore ha risposto che lui non sopportava le chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti.

Francesco Vitale 3D – 2° classificato IL CUOCO DELL’UZCIBAKRACCISTAN

Scusate se parlo un po’ strano, ma sono straniero: vengo dall’Uzcibakraccistan.

Nel mio Paese c’è un’usanza, che dopo il matrimonio si fa un banchetto e tutti mangiano; un mio amico mi ha detto, ma anche noi facciamo così! e allora io, che essendo il miglior cuoco dell’Uzcibakraccistan di banchetti ne ho visti tanti in tutto il mondo, gli ho raccontato cos’è successo al pranzo di nozze della figlia del conte Snorkle, così capiva che l’Uzcibakraccistan è assai diverso da qui.

Gli ho detto:

Caro amico di qui, sappi che l’Uzcibakraccistan è un Paese che a quelli come voi sembra veramente strano: da noi non ci sono i semafori e neanche i cani che fanno la cacca sui marciapiedi, anche perché c’è un marciapiede solo, lungo quaranta chilometri, e lo si usa solo per le passeggiate riflessive sacre al dio Brlunzk, che è il dio che ha creato l’Uzcibakraccistan. Il mio Paese è una valle quadrata che si trova ventimila leghe sotto i monti, e la gente vive in case rotonde, così se non ti piace più dove abiti, oppure i vicini ti stanno antipatici, non devi fare altro che far rotolare la tua casa da qualche altra parte. Gli Uzcibakracci non sono né ricchi né poveri, perché non c’è denaro da noi, c’è una sola moneta di trecento chili, che è sacra al dio Ubrlk, che è il dio che ha aiutato Brlunzk a creare l’Uzcibakraccistan; non ci si azzuffa mai in Uzcibakraccistan.

Tutto sommato si sta proprio bene da noi.

Comunque ora ti racconto cos’è successo al pranzo di nozze della figlia del conte Snorkle, così capisci che l’Uzcibakraccistan è assai diverso da qui.

E’ successo che era un bel pomeriggio di primavera, e il conte Snorkle ha allestito una lunga e bellissima tavolata all’aperto e tutti gli abitanti dell’Uzcibakraccistan erano invitati. La figlia del conte si sposava con Quotzlurk, un giovane colto e intraprendente, che essendo venditore porta a porta di sassi levigati, ha visto più o meno tutto il mondo. Tuttavia Quotzlurk non ama parlare dei suoi viaggi, e poi capisci perché.

Ci siamo seduti e abbiamo intonato la filastrocca propiziatoria, accompagnati dai musicisti che suonavano musica tipica Uzcibakraccia con l’ukulele e il basso tuba

ABD-ABD-ABD

ABD-A-ABD-B!

ABD-ABD-ABD

A-ABD-BD-BDB!

ABD-ABD-ABD

ABD-ABD-GATTO!

che vuol dire pressappoco buon appetito.

Poi sono arrivate le portate: tutte a base dell’unico ortaggio che cresce in Uzcibakraccistan, cioè il crauto.

Di antipasto crauti a fettine in salsa crauta, poi crauti al vapore con crauti tritati, ravioli di crauti ripieni di crauti, tagliata di crauti, crauto incrautato, spiedini di crauti e, per finire, torta nuziale a base di crauti, caffè ai crauti e liquore di crauti.

Ho trascorso tutta la notte a preparare il pranzo ed ero molto soddisfatto.

Quando abbiamo mangiato, poi tutti hanno cominciato a parlare. E parlavano, e parlavano, e parlavano… Soprattutto le vecchie signore, che sono anche peggio di quelle qui da voi che si lagnano sui tram. E l’Uzcibakraccistan è noioso, e l’Uzcibakraccistan è squallido, e ci sono solo crauti, e non succede mai niente… e così via.

Allora lo sposo si è alzato in piedi e ha fatto un lungo pernacchio, che secondo le nostre usanze vuol dire, devo fare un discorso.

Tutti sono stati zitti e lui ha cominciato a raccontare dei suoi viaggi in Africa, di bambini magri e affamati che si contendono poca acqua sporca, di donne sole e malate che non possono curarsi perché non hanno i soldi, di fame, guerra e orrore, di gente sfruttata e gente che muore.

Quando lo sposo ha finito di raccontare la sua storia al banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un grande silenzio. Il giorno dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo a rivelare cosa gli era successo in Africa; il raccontatore ha risposto che lui non sopportava le chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti.

Chiara Eriano 3B – 3° classificata LA MOGLIE

Era una fresca mattina di Maggio. Il vento sollevava dai rami fiori di pesco che frusciavano, attraverso la finestra spalancata, nella camera di Marta. Così, al suo risveglio, una piacevole fragranza pervadeva la stanza , creando una dolce e magica atmosfera.

L’incanto di quel risveglio è stato rotto dal calpestio prodotto dalle suole delle scarpe di sua madre. E’ entrata in camera della ragazza, sbattendo la porta dietro di sé energicamente, come un ciclone. “E’ il gran giorno…come ci si sente, sposina?” “Bene, grazie” ha risposto Marta con un gran sbadiglio. Poi ha fatto un sorriso smagliante alla madre, che l’ha ricambiata con una smorfia ed un’occhiataccia. “Mi potresti spiegare il motivo per cui hai tenuto la finestra aperta tutta la notte?” ha inquisito Luisa, che quel giorno ricopriva l’alta carica di madre della sposa, ed ha aggiunto “E togliti dalla finestra che sei mezza nuda. Non lo sai che la gente sparla?! Ieri sera ho sentito la contessa Bizzo mentre parlava, piano piano, da balcone a balcone, insieme con la con la moglie del cavaliere Marelli. Credevano di non essere udite ma, per caso, mi trovavo sul balcone a fumare una sigaretta. E lo sai cosa diceva quella vecchia zitella della contessa Bizzo? Che io e tuo padre siamo dei mollaccioni e che dei genitori perbene non avrebbero mai permesso alla figlia di sposarsi con rito civile.” Detto ciò, Luisa è scoppiata in lacrime come esplode in mille scintille un petardo acceso da due mocciosi impertinenti. Al solito, Marta l’ha abbracciata per consolarla. Luisa odiava l’alta società, l’aristocrazia milanese, la gente che abitava nel suo stesso palazzo maledettamente lussuoso. Era stata catapultata in questo ambiente da suo marito Jean, un duca di origini francesi. Avrebbe voluto scappare, ma ogni volta che il pensiero si volgeva alla fuga subito tornava a Jean, legato a lui da un filo tenace e resistente a tutto. Dunque comprendeva perfettamente il desiderio della figlia di sposare l’uomo che amava. Era comunque certa che Giovanni, futuro sposo di Marta, avrebbe dato prova di essere una persona perbene davanti agli esponenti dell’alta società milanese che avrebbero partecipato al pranzo nuziale e ascoltato il discorso che egli aveva preparato per l’occasione. Giovanni aveva tutte le carte in regola per farsi ascoltare: era un promettente giovane fotografo il cui ultimo reportage sul Mar Rosso aveva fatto sognare ad occhi aperti perfino la contessa Bizzo, vecchia zitella acida dall’immaginazione incartapecorita.

Marta, dal canto suo, giurava a se stessa che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe portato il pesante fardello dell’ipocrisia sulle sue spalle; attendeva fiduciosa la sua liberazione.

Il rito è stato breve. Gli invitati, dopo il fatidico si, si sono riversati vociferando fuori dalla sala del consiglio comunale in cui i giovani si erano appena promessi rispetto, aiuto reciproco, amore per sempre. I loro sguardi ridenti erano talmente felici ed innamorati che tutte le signore presenti tradivano una sentita commozione dietro la cipria e il rimmel. Nessuna ostentazione, nessun discorso sarebbe stato necessario a dimostrare l’onestà e la bontà dei sentimenti di Giovanni, che guardava Marta come se fosse stata l’ottava meraviglia del mondo. La nube di preoccupazione che offuscava il bel viso di Luisa si è dissolta quando la contessa Bizzo, dopo essersi avvicinata furtivamente a lei, le ha detto: “Sarà anche ateo, quel signor Giovanni, ma saprà di certo amare sua figlia! Guardi come se la mangia con gli occhi!” Dunque tutto, proprio tutto, stava andando per il meglio.

Il pranzo è stato allestito da una società di catering in un cascinale secentesco a Morimondo. Si scorgeva, svettante tra il verde scintillante dei prati in fiore, l’abbazia. La sposa irradiava, sorridendo con le labbra e con gli occhi, gli invitati chiacchieroni e rumorosi . Era, come vuole la tradizione, accanto al suo sposo. Seduto vicino a lei c’era Luigi, suo fratello maggiore e testimone di nozze. Accanto a Giovanni c’era Fatima, sua testimone, che il giovane fotografo aveva conosciuto sul Mar Rosso, durante il famosissimo reportage.

Quando, alla fine del pranzo ( che si è protratto per ben cinque ore!), i camerieri hanno portato a tavola la torta nuziale, si è levato l’abituale grido degli invitati: “Di-scor-so!Di-scor-so!”. Come tirarsi indietro?! Giovanni si è alzato, solenne e illuminato nello sguardo dalla gioia e dall’amore per la moglie. Dopo avere rivolto una fugace occhiata d’intesa a Marta ed a Fatima, sua testimone, ha iniziato: ” Di nuovo grazie a tutti di avere preso parte al nostro matrimonio! Vi ringrazio inoltre di avermi dato la possibilità di parlare.” Tutti i presenti hanno riso di gusto, pensando che avesse fatto una freddura ( è naturale che lo sposo pronunci un discorso durante il pranzo di nozze!) e travisando così il reale significato delle sue parole. Giovanni, interrotto e stupefatto dall’ilarità dei commensali, ha respirato profondamente , per poi riprendere: “Bene, come saprete se mi conoscete o se comprate tipi da viaggio, un anno fa ho lavorato per un reportage sul Mar Rosso”. A questo punto uno scroscio di parole di ammirazione mescolate confusamente tra loro lo ha interrotto. “Ebbene” ha soggiunto, quasi infastidito, per continuare “Il lavoro è stato duro ma, avendolo ultimato tre mesi prima della scadenza, ho deciso di regalarmi una breve vacanza ad Hurgada, città che mi piaceva moltissimo. Ho inviato alla redazione del giornale le foto che avevo scattato e mi sono procurato una camera in un albergo. Ogni giorno vagavo a lungo per le vie della città alla ricerca di immagini da immortalare. Trascorrevo le serate in completa solitudine, nel bar dell’albergo, ad osservare gli scatti del giorno. Una sera ho fatto amicizia con la barista che mi serviva il solito da due settimane. Comunicare con lei era facile, dal momento che parlava francese ed inglese. Trovava interessanti le mie fotografie, particolarmente quelle che ritraevano moschee, e si è proposta, quando avesse avuto tempo, come guida delle mie peregrinazioni. Un pomeriggio, fuori da una moschea, Fatima mi ha chiesto se io credessi in qualcosa. Quando le ho spiegato che ero ateo, ci è rimasta un po’ male ed ha iniziato a parlarmi dell’islamismo, il suo unico credo, la sua unica certezza. Dal primo momento, forse per il fascino delle misteriose moschee di cui provavo ad estrapolare il segreto con una fotografia, forse per il vuoto spirituale che mi attanagliava il cuore, mi sono sentito molto attratto da quella religione. Così da quel giorno, ne ho passati molti ad interrogare Fatima sul suo credo, che diventava, con il passare del tempo, mio. L’ho abbracciato; ma non ho intenzione di disquisire con voi di teologia né di esporvi le mie convinzioni personali in merito . Andrò avanti a raccontare e basta. Il periodo di vacanza di cui potevo usufruire è finito in un soffio e sono tornato a Milano a licenziarmi dalla redazione del giornale per cui lavoravo. Qui ho incontrato una giovane correttrice di bozze, Marta, una donna meravigliosa. Ora intendo portarla con me nella mia bella casa sulle rive del Mar Rosso, ad Hurgada. Lì la potrò, finalmente, sposare secondo il rito musulmano e vivere per sempre con le due donne che amo e che mi rendono più felice di un re, Marta e Fatima, le mie bellissime mogli.” Quando lo sposo ha finito di raccontare la sua storia al banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un gran silenzio. Il giorno dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo prima di rivelare cosa gli era successo in Africa; il raccontatore ha risposto che lui non sopportava le chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti.

Iacopo Simonetti 3 F – 4° classificato MATRIMONIO CON VIZIETTO

Mario e Patrizia. Soltanto nomi e data sul banalissimo invito rosa confetto che ogni abitante di Fiano Romano aveva ricevuto mesi prima in occasione della Sagra del Bucatino organizzata dalla Pro Loco. Conconi Mario detto “Er Patata” e Roncelli Patrizia detta “Titti”. Sono fatti l’uno per l’altra, il massiccio figlio di Pino il macellaio- organizzatore del buffet, gnocchi alla romana e abbacchio scottadito- e la deliziosa rampolla della famiglia Roncelli, ortolani da quattro generazioni quattro.

Lui- completo di rappresentanza A.S. Roma con cravatta giallorossa e gemelli raffiguranti Totti e Cassano, 120 Euro da “Tutto per lo sport”- e lei- abito bianco di Chanel con bruciatura di sigaretta accuratamente camuffata, 98 Euro con lo sconto al discount “Mariposa” di Cerveteri- hanno appena pronunciato il fatidico “Sì”. Titti in lacrime, pensando a come chiamare il primo figlio, Mario in lacrime, pensando a quella carogna dell’agenzia viaggi “Michelino” che per una tre giorni ad Alghero gli ha fregato mezzo stipendio. E si sarebbe pure perso la trasferta di Milano contro l’Inter, cioè tre punti sicuri. Ma non è questo a preoccupare Mister Centocelle 2000. Tra pochi secondi dovrà affrontare quella platea di burini e spiegar loro un bel po’ di cose. Ad esempio, chi è la brutta copia di Naomi Campbell che lo abbraccia nella hall del “Plaza” di Sharm el Sheikh nel volantino che qualcuno ha appiccicato quella mattina per tutta Fiano. E soprattutto che ci fa lui a Sharm el Sheikh, visto che il suo viaggio più lungo era stato due anni prima a Verona per Verona- Roma di Coppa Italia. E la Roma aveva pure perso.

Mario guarda Francesco Verdone detto “Cecco”, 25 anni. Il suo migliore amico. Cecco fa il fornaio, e stamattina alle sei è piombato in casa sua con il fiatone e il volantino in mano. Era un ingrandimento del depliant dell’agenzia viaggi: lo avevano fotografato lo scorso Novembre, quando doveva essere a Trento per l’Exposapori 2003 e aveva avuto la bella idea di andare con Cecco in Egitto. Ed era riuscito a farsi fotografare per la promozione Primavera- Estate 2004. E pure gratis. Stamattina lui e Cecco ci hanno messo tre ore a staccare tutti i volantini.

Guarda la signora Amaltea, 82 anni. Lei sicuramente il volantino l’ha visto. Tutte le mattine alle cinque si alza e va a fare una passeggiata. Da piazza Garibaldi prende via Cavour e arriva sull’Aurelia. Solo davanti al panettiere di via Cavour di volantini ce n’erano cinquanta. Non può non averlo visto. E non può non averlo raccontato a tutto il paese, dato che, come tutte le ottantaduenni di Fiano che si rispettino, la signora Amaltea non ha altro da fare che sedersi su una panchina e spettegolare da mattina a sera.

Guarda Felice Natale detto “Pugno”, 25 anni. L’infame sogghigna. Sfoggia la sua abbronzatura da ferie d’Agosto perché è appena tornato da Sharm el Sheikh con la Promozione Primavera – Estate 2004. Non ci vuole l’ispettore Maigret per capire che Felice Natale detto “Pugno”, ex fidanzato di Patrizia Roncelli detta “Titti”, ce l’ha messa tutta per decretare la fine precoce del suo matrimonio. Mario non è l’ispettore Maigret, ma si propone ugualmente di fare quattro chiacchiere col Pugno, magari nottetempo, nel garage di casa sua.

Guarda il resto della platea, pronta a mangiarselo vivo.

Guarda Titti, ancora in lacrime.Per fortuna lei non sa nulla, visto che ha passato la notte al convento dell’Annunziata e da lì non si è mossa.

Guarda il microfono. Ha deciso: racconterà tutto. Della cliente di Cecco che ha assunto Mister Centocelle 2000 come testimonial per la sua catena d’alberghi: Egitto, Kenya, Marocco, ma anche Caraibi, Mauritius, Polinesia. 2000 Euro a servizio. Della prova di Sharm el Sheikh. Di Youma, la venere nera a lui avvinghiata nella foto e direttrice della Sharm Advertising Inc.

Immagina il Pugno livido di rabbia, Cecco commosso e la platea silente. Immagina la sua nuova casetta nel centro di Roma, gentilmente offerta dalla produzione, e il tanto atteso viaggio di nozze con Titti. Destinazione: Alghero, Egitto, Kenya, Marocco, Caraibi, Mauritius, Polinesia.

Quando lo sposo ha finito di raccontare la sua storia al banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un gran silenzio. Il giorno dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo prima di rivelare cosa gli era successo in Africa; il raccontatore ha risposto che lui non sopportava le chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti.

Antonia D’Onghia – 2E – 5° classificata UNDICI GRASSI TOPI

Come sempre, ai banchetti di nozze, nel grande salone allestito per il ricevimento l’orchestra suonava canzoni romantiche per allietare i convitati.

Come sempre, ai banchetti di nozze, i convitati non ascoltavano l’orchestra. Ebbri a causa dei fiumi di vino versati per festeggiare il lieto evento, gareggiavano elevando il volume delle loro voci in un chiacchierio smodato e senza fine.

“Ma racconta a tutti noi, Joris, non ti hanno forse trattato bene in Africa dal momento che sei tornato così presto o dobbiamo ringraziare di questo solo la bellezza di Laura?” disse infine il testimone dello sposo, visibilmente eccitato dall’alcol.

“In verità” disse lo sposo alzandosi in piedi perché tutti lo sentissero ” è stato un altro il motivo che mi ha spinto a tornare” e strinse affettuosamente la mano di Laura affinché la sua giovane sposa non si sentisse trascurata.

” La casa del mio amico e ospite Mufasa, in Camerun, non è tanto distante dalla capitale e pertanto è un luogo adatto per scrutare, in cerca di ispirazione per i miei quadri, i volti della gente del posto la cui storia sembra scolpita sui quei visi e ciò è estremamente affascinante per un pittore.

Mufasa, come è costume in quei luoghi, vive con la sua numerosissima e vivace famiglia… fossi uno scrittore invece che un pittore li avrei resi tutti personaggi delle mie commedie… ma come tutti ben sapete, non ho dipinto nulla lì, né al mio ritorno in Italia, in quanto un fatto singolare capitato durante il mio soggiorno in Africa mi ha impedito di concentrarmi sul lavoro.” A questo punto si zittì, guardando compiaciuto, come avrebbe fatto un abile oratore, il suo pubblico di convitati che avevano smesso di mangiare e di bere per ascoltare divertiti il racconto dello sposo, loquace come non lo era mai stato, mentre la sposa, al suo fianco, si chiedeva da dove Joris stesse tirando fuori quella storia.

“Il mattino seguente al mio arrivo, undici grassi topi, allineati in ordine di grandezza davanti alla casa, diedero il buongiorno a tutta la famiglia. I ripetuti tentativi di cacciarli si sono rivelati vani e davvero non capivamo da dove quei topi provenissero e perché mai restassero così allineati in scala. Tutto ciò lasciva presentire qualcosa di arcano e vagamente pericoloso. Il dolore arrivò la sera: il più piccolo dei dieci fratelli di Mufasa cadde dal tetto mentre cercava di aggiustare una delle lamiere del soffitto e morì. Alti si levavano allora i lamenti della vecchia madre e continuavano ancora quando, il mattino successivo, la schiera malefica di quei topi, come apparsa dal nulla, si ripresentò sulla soglia di casa. Ma questa volta, il più piccolo dei topi giaceva a terra, morto, con il muso tumefatto e con un ghigno…lo stesso ghigno che aveva assunto il cadavere del fratellino di Mufasa.

” il Camerun è un posto strano” aggiunse Joris dopo un attimo di pausa, ” lì i concetti di vero o falso sono una pura illusione, e la magia…beh,… chi ci crede non può allora stupirsi di quel che sto per raccontare… Scoprii presto che l’origine dei mali della famiglia di Mufasa è una donna, la vecchia strega del villaggio, che vedendo ripetutamente negata da parte della vecchia madre di Mufasa la sua richiesta di acquistare il terreno della famiglia, le aveva predetto mesi addietro la morte del più piccolo dei suoi figli. La strega tornò ancora quella mattina ma Nakibuka, la vecchia madre, si rifiutò di vendere il terreno “Dove andremo tutti noi!!!” ricordo che diceva tra i singhiozzi.

Improvvisamente nel pomeriggio trovammo il più grande dei topi morto in cucina. Lo sgomento prese Mufasa che cercando di capire il significato arcano che si nascondeva dietro i topi, aveva finito per identificare i suoi fratelli con quegli orrendi animali e se stesso, il maggiore, precisamente con la carcassa morta che ora giaceva sul pavimento della cucina. Benché avesse preso tutte le precauzioni per la sua incolumità, non aveva previsto di essere morso da un serpente mentre tornava a casa dopo una lunga giornata di lavoro, tre giorni dopo . Riuscì a percorrere il tratto che lo separava dalla propria casa ormai in preda al delirio di morte e si spense dopo una lunga agonia sul pavimento della cucina.

Nakibuka ha venduto il terreno il giorno seguente, senza la minima esitazione. Io sono tornato perché non sapevo dove alloggiare.” Detto ciò, lo sposo si sedette accanto alla sposa inorridita e furente, con la consueta imperturbabile calma con la quale riesce abilmente a celare il piacere sottile che prova ogni volta nel beffare sarcasticamente le persone per le quali non prova alcuna stima.

Come è raro che accada, quando lo sposo ha finito di raccontare la sua storia al banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un gran silenzio. Il giorno dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo prima di rivelare cosa gli era successo in Africa; il raccontatore ha risposto che lui non sopportava la chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti.

Irene Galluccio 2E – 6° classificato IL BANCHETTO

Quando finalmente si è estinta in tavola la quarta portata e gli invitati hanno finito di dar fondo all’ennesima bottiglia di vino, il testimone, amico fraterno dello sposo, si è deciso ad alzare il calice ricolmo del Riesling leggermente frizzante che ha accompagnato la tagliata di verdure con scamorza grigliata: “Dunque, è stata una bellissima cerimonia; per non parlare poi dell’antipasto di granchi e polpo: avrebbe fatto risuscitare un morto. Le linguine al pesto alla contadina sembravano proprio quelle della nonna; il filetto al pepe, non di meno, si sposava magnificamente con quella bonarda d’annata. Comunque, la nostra sposina è bellissima, e complimenti allo chef!” – applausi – “Adesso tuttavia vorrei presentare, per chi non lo conoscesse, lo sposo” – risate – “che ha qualcosa da dire: aspettatevi le solite melensaggini nei confronti della nuova moglie e di voi tutti; di certo vi ringrazierà, eccome!”

“Per una volta ti sbagli, mio caro;” ha detto lo sposo sorridendo da dietro gli occhiali alla Indiana Jones, “come sapete, il mio lavoro mi porta spesso lontano dall’Italia, ma credo che pochi di voi, esclusa mia moglie, mi abbiano mai sentito raccontare qualcosa dei miei viaggi, Quest’oggi però vorrei fare un’eccezione, vorrei parlarvi dell’Africa.” –applausi sfrenati; il testimone, che come si era già potuto notare ha alzato un po’ troppo il gomito, è caduto dalla sedia per la soddisfazione- “Ebbene, l’anno scorso ero in Congo con il gruppo di antropologia dell’università, stavamo seguendo una tribù Masai per imparare qualcosa sui cicli e sugli spostamenti di caccia –con il loro permesso naturalmente!-; ci muovevamo, sapete, con tutto il solito fracasso tipico di noi occidentali: squadre di jeeps, roulottes, troupe di ripresa, avevamo perfino le docce. Ad un certo punto comunque io, due miei colleghi e un operatore ci siamo staccato dagli altri per fare un’esplorazione un po’ più all’interno: volevamo visitare un villaggetto sperduto, l’appuntamento era dopo tre giorni.”

Quest’ultimo verbo, “era”, ha innervosito un po’ gli invitati che per la maggior parte stavano ascoltando rapiti il racconto; lo sposo ha ammiccato alla moglie notando la reazione del suo pubblico. “Immaginatevi la scena: ” ha continuato “quando arriviamo, ad accoglierci c’è uno stupendo cielo blu, l’aria calda muove leggermente l’erba alta della savana arsa dal sole di mezzogiorno, un rigagnolo cristallino serpeggia tra gli arbusti –non è una zona particolarmente secca-, capanne di fango e di paglia e …” –i convitati trattengono il fiato- “un silenzio di tomba. E’ assurdo, pensiamo, non c’è nessuno. Ovviamente non è così: da dietro una tenda spunta il viso segnato e sorridente della nostra sdentata, vecchia guida del villaggio, che ci invita a mangiare da lui: l’ospitalità è sacra, non rifiutiamo. Dentro, la luce è poca e l’aria soffocante. Il padrone di casa, tutto orgoglioso, ci presenta le portate che ha preparato i previsione del nostro arrivo: cavallette fresche, o per meglio dire, vive;” – il pubblico rabbrividisce – “uova di serpente cotte alla piastra – sulla pietra rovente intendo; per finire qualcosa che sembra pollo – in realtà è topo -, il tutto accompagnato da latte di vacca, che ci avevano raccomandato di bollire. La tentazione di andarcene è forte, tuttavia per non offenderlo trangugiamo il cibo che uscendo a turno vomiteremo in un cespuglio.” – questa volta il ribrezzo degli invitati è palese – “quando tocca a me, esco a fare due passi per il villaggio deserto; ad un tratto sento dei gemiti, mi avvicino e scopro che è un bambino sui quattro anni che piange. Lo prendo in braccio, gli faccio il solletico e lui ride; e così incominciamo a giocare: io lo prendo, lui mi prende, ci rincorriamo per la strada assolata. Dopo poco però, esce il mio ospite dalla capanna e mi dice di non far correre il bambino, Perché? Glielo domando e lui risponde che in questo modo gli faccio venire ancora più fame.”

Pausa di silenzio, “E allora capisco: il villaggio è deserto perché la gente è tutta a casa immobile per evitare di fare del movimento che accresca la fame dell’ora di pranzo.” Quando lo sposo ha finito di raccontare la sua storia al banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un grande silenzio. Il giorno dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo prima di rivelare cosa gli era successo in Africa; il raccontatore ha risposto che lui non sopportava le chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti.

Martina Giuliano 5 C – 7° classificata LA COLLANA DI PERLE

“Un anno fa mi ero recato come missionario con un gruppo di amici a Kiffa, un paesino sperduto dell’Africa. Un giorno, stanco dopo una lunga camminata, mi ero separato dagli altri e avevo raggiunto un caffè del posto. Seduto su un alto sgabello di legno, osservavo con attenzione un uomo che si era adagiato sul sedile accanto me. Era un signore distinto, magro, carnagione pallida, occhi neri infossati, cupi e una ruga che, come l’aratro nei campi, scavava un profondo solco sulla sua fronte. Segni d’inquietudine e tormento.

Si presentò formalmente, il suo nome era Matteo. Aveva il desiderio di parlarne con qualcuno, voleva togliersi quel peso, mi fissò intensamente e poi incominciò:

‘Cinque mesi fa, a Milano era una giornata tipicamente autunnale, leggevo il giornale. Cecilia, mia moglie, guardò l’orologio: erano le 15. Un sorriso improvviso si stemperò sull’ovale perfetto del suo viso e uno strano luccichio balenò nei grandi occhi nocciola orlate da lunghe ciglia ricurve.

Cercò di dissimulare quell’entusiasmo chinandosi per sistemare la composizione di fiori secchi dal profumo di lavanda, poggiata sul tavolino di cristallo. Si diresse verso la camera da letto; indossò la collana di perle a due fili, si pettinò i morbidi capelli corvini e tratteggiò le labbra sottili di tenue rosa carne. Mi annunciò che sarebbe uscita. M’irrigidii di colpo, una tensione mi invase, frenai a stento l’impulso di trattenerla e la salutai con un sorriso forzato.

Per due settimane ero stato costretto in casa da una polmonite e non avevo potuto recarmi al lavoro nel mio studio dentistico. Avevo notato che mia moglie usciva di casa ad una cert’ora del pomeriggio, senza mai dimenticarsi d’indossare quella collana e curando il suo aspetto in un modo che a me appariva eccessivo. Avevo provato ad interrogarla ma avevo ricevuto soltanto risposte vaghe. L’angoscia mi aveva tormentato, poi un pensiero si era delineato nella mia mente più nitido…un amante, forse aveva un amante. L’idea mi aveva attanagliato, tanto che appena mi ero sentito meglio, l’avevo seguita. Si recava in una casa d’epoca al numero 7 di via Chiossetto, un portone di legno intarsiato. Avevo individuato anche la posizione del citofono: Rigamonti era il suo cognome.

Quel giorno, appena lei uscì, tirai fuori dalla tasca il frammento sgualcito del biglietto che avevo trovato la sera prima sotto il sedile dell’auto, nel raccogliere l’accendino caduto. Rilessi le parole con voce tremante – …grazie per la felicità che mi dai. Ti amo. Cecilia – Mancava la prima parte.

Tirai una boccata alla sigaretta e il filo di fumo biancastro avvolse con una spirale la scrivania di mogano, ricoperta di carte. Tirai la manopola. Afferrai la pistola, che detenevo con un regolare porto d’armi. Presi il soprabito antracite poggiato sul divano in pelle nera, lo indossai e nascosi l’arma nella tasca interna. Il mio corpo esile si muoveva meccanicamente, trasportato dalla corrente impetuosa della furia che si era impadronita di me. Arrivai al numero 7. Il portone era aperto. Il custode sbucò. Omino piccolo, capelli biondi ispidi, occhi grigio spenti, andamento pigro.

-Il signor Rigamonti mi aspetta… a che piano..?

-2° piano…ma..?

Senza dargli il tempo di domandare mi precipitai per le scale a chiocciola in marmo.

Il campanello emise un suono secco, nelle mie orecchie echeggiò come un urlo.

Un uscio di legno lucido si spalancò. Stetti sulla soglia. Comparve l’uomo. Allampanato, ossuto, con un naso pronunciato sormontato da baffi un po’ ingialliti, Aveva mani affusolate, macchiate di colore.

Notai la giacca del tailleur di mia moglie appesa ad una parete affrescata. Un movimento fulmineo. Senza che potesse proferir parola. Un colpo secco che si riprodusse in me all’infinito. Era a terra. Morto. Entrai nella casa, dall’ampia vetrata filtrava un sole pallido. Vidi un cavalletto con una tela rettangolare posata sopra. Era visibile il retro, con una dedica:

-Matteo, per i nostri dieci anni di matrimonio, grazie per la felicità che mi dai. Ti amo. Cecilia.-

Uno specchio dalla cornice argentea rifletteva il dipinto: era il ritratto di una donna, dai morbidi capelli corvini, con le labbra tratteggiate di rosa tenue e con un collana di perle a due fili.

Prima ancora di vedere mia moglie, scappai rabbrividendo.

Sperai non mi trovassero mai più. Volevo sparire.

Maledissi la folle gelosia che mi aveva impedito di riflettere. Presi un aereo e venni qui. Nessuno per ora mi ha mai cercato. Ma il silenzio è ancora più doloroso.’

Il suo viso, più disteso, il mio contratto e sfinito. Avrei voluto fargli domande ma non sarebbe servito a nulla. Il passato è incancellabile.”

Quando lo sposo ha finito di raccontare la sua storia al banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un gran silenzio. Dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo prima di rivelare cosa gli era successo in Africa; il raccontatore ha risposto che lui non sopportava le chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti.

Cecilia Ferrari 1B – 8° classificata QUALE UOMO?

 Un passo dopo l’altro, corri e non pensare a niente. Era sempre stato così, c’ero sempre riuscito: io, la strada e nient’altro, il rumore dei miei passi sull’asfalto, il battito del mio cuore. Quel giorno però non era così, sentivo di non riuscire a trovare la giusta concentrazione. Ovunque il giudizio degli altri mi perseguitava, volevo essere idolatratato da tutti, pensavo che questo fosse l’unico modo per emergere nella vita.

Mi fermai di botto ansimando e mi trovai di fronte a un negozio di scarpe. “Sei un vigliacco”, sembrò rispondermi la mia immagine riflessa sulla vetrina.

Tornai a casa e mi buttai sul letto senza nemmeno accendere le luci; gli occhi fissi sul soffitto. Avevo sempre fatto di tutto perché gli altri mi credessero una persona eccezionale, senza mai curarmi minimamente di prendermi gioco delle persone, anche di quelle che più si fidavano di me. Non pensavo però che sarei mai arrivato a tanto. Per la prima volta nella mia vita provavo cosa volesse dire essere tormentato dai rimorsi. Nessuno mi conosceva davvero, tutti conoscevano l’immagine che davo di me, ed era del tutto diversa dalla realtà.

Il giorno prima mi ero sposato con una donna che pensava di essere fortunata ad avere a fianco un uomo stupendo come me. Non so se sia stato davvero il troppo alcool, forse semplicemente una mancata fiducia in me stesso. Fatto sta che quando, durante il banchetto, tutti mi chiesero di pronunciare un discorso, fissai a lungo ogni singolo volto degli invitati.

“Stupiscici, fatti amare”, sembrava pensare ognuno di loro.

Tirai fuori tutta la mia fantasia e cominciai a raccontare una marea di assurdità sul fatto che nessuno di loro lo sapeva, ma io a soli diciassette anni, un giorno ero scappato di casa (“OHHHH! DAVVERO?”) per andare in Africa a conoscere la realtà di un popolo meno fortunato di me (“Sembra incredibile! Ale, perché non ce l’hai mai raccontato?”). Rubai i soldi ai miei genitori e riuscii a partire, dissi. Non so proprio da dove mi vennero fuori tutte quelle bugie in una volta sola, perché poi, spiegato come giunsi a Ouagadugu, capitale del Burkina Faso, per un’ora raccontai di come avevo vissuto a contatto con un villaggio di persone povere e primitive, a cui diedi tutti i soldi che avevo, lasciando da parte solo quelli per il viaggio di ritorno. Quando, dopo un mese dalla partenza, tornai a casa, raccontai ai miei genitori infuriati e preoccupati, che ero stato un mese dal mio amico Giuseppe a Torino.

Tutti estasiati.

Ora tutti mi adoravano, ed era questo che contava, no? I miei genitori erano morti da tempo e da quando me ne ero andato da Milano avevo perso i contatti con ogni persona che conoscevo lì. Nessuno avrebbe potuto testimoniare contro di me, ed era quello che contava.

Mia moglie a bocca aperta mi abbracciò e tutti gli invitati, tra lo stupito e l’estasiato, stettero zitti a lungo. Quando Giovanni la mattina seguente mi chiese come mai non l’avevo raccontato prima, mi inventai la prima scusa che mi venne in mente in quel momento. Non ero riuscito a dire la verità neanche al mio migliore amico.

Il pomeriggio seguente capii che per una vita non ero mai stato nessuno, non avevo mai trovato la forza di credere in me stesso o in un piccolo sogno. Decisi che dovevo urlare la verità al mondo intero, se volevo vivere davvero.

“Eccomi qua”, pensavo, “un distinto quarantenne appena sposato, impegnato in una decomposizione avanzata sul letto di casa sua, pronto ad informare sua moglie che ha sposato l’uomo sbagliato e che suo marito è un bugiardo. Un bugiardo che lei non conosce minimamente in verità”. Quando mia moglie sarebbe tornata a casa le avrei parlato.

Avevo sentito di persone che per una depressione si erano buttate giù dalla finestra. Non doveva essere una cattiva idea, se avesse contribuito a farmi stare meglio.

Da bambino mi avevano fatto un sacco di discorsi sul fatto che, quando muori, in cielo c’è il Pezzo Grosso che tanto poi ti perdona. Tra parentesi, chissà perché, mi chiedevo, se Dio esiste permette che un uomo si riduca a vivere così.

Avevo bisogno di muovermi nell’attesa di mia moglie.

Mi trascinai fuori da casa. Nel mio paesino di duemila abitanti non si parlava che del mio matrimonio. Camminando per strada sentii un signore che non conoscevo parlare di me. Interrogato da un amico, diceva:”E poi, quando lo sposo a finito di raccontare la sua storia al banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un gran silenzio. Il giorno dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo prima di rivelare cosa gli era successo in Africa; il raccontatore ha risposto che lui non sopportava le chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti”.

Matteo Mazzucchi – 3 A – 9° classificato NEL CALDO VENTRE DELLE PIRAMIDI

“La notte era scesa calma e solenne. Le ultime luci rossastre del tramonto erano scomparse dietro le dune del deserto e i suoni della vicina città del Cairo si erano affievoliti con l’avvento dell’oscurità. Era una sera di Gennaio del 1912, se non vado errato.” Così aveva cominciato a parlare John Falstaff, interrompendo in questo modo il turpiloquio che lo aveva accompagnato dai tempi del suo viaggio in Africa fino al sacro momento del matrimonio con la bella Lola dai capelli rossi. Molto si era ipotizzato su cosa fosse successo a John in Egitto, cosa avesse potuto trasformare un ragazzo timido e riservato che aveva lasciato l’Inghilterra poco dopo la laurea per sovrintendere alla costruzione di un ponte in un giovane spavaldo che nel giro di poco tempo era riuscito a convolare a nozze con la donna da lungo tempo sognata e a fare una veloce carriera politica nel piccolo paese di Shrewesbury. Era come se in lui fosse scattata una molla, che aveva liberato in un solo istante tutte le sue capacità recondite, quasi istintuali. Ma lui fino a quel momento non aveva mai voluto raccontare cosa avesse provocato il suo cambiamento. Ora invece era decusiso a sbottonarsi. Così parlò: “Il gelido Orione mi stava guardando dall’alto, Betelgeuse e Bellatrix, come braci infuocate, scrutavano nella mia anima, che in quel momento pesava ben più dei 21 grammi canonici. Le Piramidi mi incutevano un terrore misto a rispetto, coi loro 5000 anni di vita, ma non erano nulla rispetto all’eternità che aveva preceduto la loro crazione e all’altra eternità che sarebbe seguita alla loro distruzione. La paura del vuoto mi assalì con la forza di un puma. Siamo solo polvere gettata a caso nell’infinità del tempo e dello spazio”. Nemmeno l’immagine della bella Lola, a cui in momenti come questo tendevo ad aggrapparmi, servì a qualcosa. Caddi, caddi, la mia mente non pareva più ragionare. Come in un sogno estrassi la pistola che tenevo con me per difendermi dai predoni e la puntai alla tempia. Stavo per fare fuoco quando all’improvviso vidi qualcuno muoversi nell’oscurità. Come svegliatomi da un incubo rimisi ancora tremante la pistola nella fondina e cominciai a seguire quel misterioso uomo dalla barba folta e bianca e dal vestito Dervisci che si muoveva nell’oscurità con aria circospetta. Lo seguii, tra la polvere del deserto, nei cunicoli non ancora scoperti della Grande Piramide in cui era penetrato e nelle viscere umide e soffocanti della madre terra. All’improvviso il mio cuore parve fermarsi. Un’immensa grotta, illuminata quasi a giorno da centinaia di fiaccole, si stagliava di fronte a me. Il Dervisci, con aria solenne e maestosa, si era intanto messo su di un piccolo cumulo di terra ed aveva emesso dalla bocca una lunga frase in una lingua misteriosa, sicuramente non araba. In pochi istanti, da mille cumuli oscuri che davano nella grotta, erano apparse centinaia di creature barcollanti, coperte di bende e cosparse di resine profumate. Uomini immensi, bambini, donne e persino animali morti da innumerevoli millenni barcollavano nella sala, come richiamati per un oscuro rito. Era il Kah, una delle tre parti in cui era divisa 1’anima per gli egizi, quella che rimaneva nel corpo anche dopo la sua morte e che permette tuttora alla polvere di mummia di restituire la salute agli ammalati, che li animava e che gli permetteva di restare come vivi, come oscure caricature di quelle che erano un tempo. Venni preso da una strana agitazione, ecco cosa succede quando un’intera civiltà basa la propria cultura sulla morte! Barcollai, inciampai e caddi dallo sperone di roccia su cui mi trovavo, facendo un volo di oltre 100 metri.”

A questo punto Falstaff si fermò un istante, staccò un pezzo di carne dalla coscia di pollo che aveva nel piatto e se la mise avidamente in bocca, sorridendo in un modo che riuscì a sconcertare non pochi ascoltatori. Quindi riprese a parlare: “A questo punto l’oscurità regnava sovrana nella mia mente. Poi mi sembrò di vedere un’immensa pianura, brulla e spoglia di alberi. Mi sembrava di avere freddo, molto freddo. Creature mostruose, dalla carne rossa e dai capelli di fuoco, simili ai demoni dell’iconografia Tibetana, si dibattevano nell’orizzonte. Vidi una grotta in lontananza, piccola, calda, oscura. Corsi verso di lei e mi rintanai al suo interno. A quel punto respirai un attimo di pace e mi sembrò che il mio Io si dissolvesse nel nulla. O, per meglio dire, così deve essere sembrato alla mia anima dopo la sua fuoriuscita dal corpo. Perché dopo il volo di 100 metri sono morto, e dentro al mio corpo è rimasto solo il Kah per animarlo. Quanto alla mia anima, ebbe troppa fretta di trovare un rifugio e, senza saperlo si è reincarnata nel pollo che proprio in questo momento stiamo mangiando”.

Quando lo sposo ebbe finito di raccontare la sua storia al banchetto di nozze, nessuno sapeva cosa dire e c’è stato un grande silenzio. Il giorno dopo un amico gli ha chiesto perché avesse aspettato tanto tempo prima di raccontare cosa gli era successo in Africa. Il raccontatore ha risposto che lui non sopportava le chiacchiere ai banchetti di nozze, e riservandosi quella storia per l’occasione era sicuro che avrebbe tappato la bocca a tutti.

Gaia Formenti – 3 A – 10° classificata LA DANZA DI BUJORA

Il villaggio, due o tre paletti conficcati nel terreno, era muto e polveroso, gli abitanti si preparavano per la danza sacra della sera” lo sposo ha iniziato a raccontare, gli invitati si sono stretti attorno tendendo le orecchie “I bambini ruzzavano nella sabbia rossa, un vecchio grinzoso e ingobbito girava suonando un flauto d’osso, ricoperto di piume e amuleti sembrava lo scheletro di un avvoltoio animatosi per incanto.

Nella piazza del villaggio un ragazzo cantava e ai suoi piedi un serpente si agitava in una danza convulsa, disegnando forme geometriche nell’aria. Aspettai la sera, ero l’unico straniero che avrebbe assistito al rito.

I giovani del villaggio si sistemarono sul lato destro della piazza, i bambini al centro, le ragazze a sinistra. L’orchestra dei vecchi si dispose sul fondo, attorno al fuoco, lucente di corni d’osso e corde di budello, pronti a suonare.

Il vecchio sciamano passò tra i giovani e tra i bambini e bisbigliò loro qualcosa nell’orecchio, questi vibravano come fili elettrici scoperti, ed iniziavano uno ad uno la danza appena le parole dello stregone venivano udite sull’orlo dell’orecchi. I bambini, elettrificati dalle parole segrete, si agitavano a ritmo di musica come code di lucertola mozzate e guizzanti, le donne agitavano i capelli come alghe vive improvvisamente.

La danza era un crescendo, i corpi dei giovani masai si intrecciavano formando le figure della natura, mimando gli alberi della steppa, raccogliendo al petto le braccia per disegnare col corpo i nodi del tronco e la ruvidità delle radici che catturavano lineamenti di mani e piedi.

Lo sciamano si dispose al centro del cerchio ed ordinò il silenzio. Solo il vecchio travestito da avvoltoio sfiorava con le dita la tesa del tamburo, ma il suono quasi si confondeva col vento notturno.

Lo stregone si tolse la maschera rivelando un volto profondamente segnato e stanco.

Si tolse i sandali, immerse le dita dei piedi nella polvere, e, lentamente, come se fosse pellicola di carta, si sguainò la gamba come fosse una spada, tirando su la pelle delicatamente come un nastro, lembo su lembo, scoprendo la superficie di ebano delle ossa che erano rami levigati.

Quando finì di spogliarsi della propria pelle rivelò un’esile scultura di osso d’ebano, nero come la notte e filiforme come un burattino. Anche il teschio era di legno lucido e nero, con le cavità degli occhi come fori di cannoni.

Da destra le donne tirarono con fili invisibili le sue braccia, da sinistra gli uomini animarono il legno delle gambe. Il burattino si mosse in una danza intorno al fuoco tirato e mosso dai fili degli abitanti del villaggio. La musica si fece più travolgente e i giovani d’un tratto sguainarono anch’essi gambe e piedi, rivelando altrettanti scheletri di legno d’ebano. Col procedere della notte il coro dei vecchi si attutì, i giovani si ripresero i loro involucri e li infilarono, pigiandosi la pelle nei punti dove il legno si incavava di più per farla aderire meglio, come una muta.

L’involucro del vecchio sciamano fu invece appeso in cima ad un albero, come un lenzuolo ad asciugare, e i giovani tornarono nelle proprie case a testa bassa.

Quella notte fu una notte di pianto nel villaggio, e stordito dai pianti delle donne, capii di aver assistito ad un funerale, e sentii sotto di me la terra arida del villaggio imbevuta di pianto.

La mattina dopo lasciai il villaggio di Bujora per ritornare in Europa, ma mi allontanai lentamente come se qualcosa mi trattenesse ancora.

Sul sentiero che portava alla città vicina vidi due giovani masai che dipingevano con terre rosse la superficie di una strana stoffa.

Finito il quadro il giovani appesero la carta velina sul tronco di un albero e si riposarono.

Poi uni dei due masai collocò la carta dipinta sull’intaglio di un tronco d’agave, e cucì la pelle tesa al cerchio del tronco. Prese a suonare con colpi decisi il tamburo, e suonò la pelle effigiata d’imprese del vecchio sciamano del villaggio accompagnando il mio ritorno sino a quando no ne udii più il suono”.

 

Alla pagina “Concorso Prosa Viva” viene presentata l’iniziativa e sono elencate le principali edizioni del concorsoi dal 2003 fino ad oggi.

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