Musica e letteratura per il Giorno della Memoria
27 GENNAIO 2006
Quello che presentiamo è un percorso di stati d’animo e di riflessioni che parte con Montale da un momento precedente all’inizio della persecuzione antiebraica e si conclude, con Primo Levi, con il dramma dei sopravvissuti.
Così, se pure in Dora Markus viene adombrata la figura di Gerti, una giovane donna ebrea che sarebbe stata vittima della Shoah in un momento successivo, la poesia rappresenta la condizione esistenziale di chi, tra indifferenza e rassegnazione, assiste al diffondersi del “veleno” del nazismo; i brani di Primo Levi, di Paul Celan, di Jean Améry raccontano l’angoscia e l’orrore dei Lager, l’umiliazione dell’intellettuale ferito nella sua dimensione umana, ma anche la reazione dello spirito resa possibile dalla cultura, e dalla poesia soprattutto; mentre le parole di Etty Hillesum sono il controcanto che dà voce alla resistenza al male attraverso l’ostinato amore per la vita.
Infine, la testimonianza di Primo Levi sulla “vergogna” dei superstiti ci ricorda che il “veleno di Auschwitz” non ha cessato la sua opera di devastazione con la fine della seconda guerra mondiale. Anche questo è il senso del “Giorno della Memoria”: non solo il ricordo del passato e di chi ne è rimasto vittima, ma anche un impegno a non abbassare la guardia, perchè, come ammonisce Levi,
“E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo; questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.”
EUGENIO MONTALE
DORA MARKUS
[da Le Occasioni , 1939]
1
Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all’altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte, senza memoria.
E qui dove un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.
La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco,
d’avorio; e così esisti!
2
Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
1a carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl’irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell’ acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.
La sera che si protende
sull’umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d’oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.
La tua leggenda, Dora!
ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d’oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l’armonica guasta nell’ora
che abbuia, sempre più tardi.
E’ scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino…
Ma è tardi, sempre più tardi.
PRIMO LEVI
IL CANTO DI ULISSE
[da Se questo è un uomo , 1958]
Eravamo sei a raschiare e pulire l’interno di una cisterna interrata; la luce del giorno ci giungeva soltanto attraverso il piccolo portello d’ingresso. Era un lavoro di lusso, perché nessuno ci controllava; però faceva freddo e umido. La polvere di ruggine ci bruciava sotto le palpebre e ci impastava la gola e la bocca con un sapore quasi di sangue. Oscillò la scaletta di corda che pendeva dal portello: qualcuno veniva. Deutsch spense la sigaretta, Goldner svegliò Sivadjan; tutti ci rimettemmo a raschiare vigorosamente la parete sonora di lamiera.
Non era il Vorarbeiter, era solo Jean, il Pikolo del nostro Kommando. Jean era uno studente alsaziano; benché avesse già ventiquattr’anni, era il più giovane Häftling del Kommando Chimico.
Era perciò toccata a lui la carica di Pikolo, vale a dire di fattorino-scritturale, addetto alla pulizia della baracca, alle consegne degli attrezzi, alla lavatura delle gamelle, alla contabilità delle ore di
lavoro del Kommando…
Ora, Jean era un Pikolo eccezionale. Era scaltro e fisicamente robusto, e insieme mite e amichevole: pur conducendo con tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro il campo e contro la morte, non trascurava di mantenere rapporti umani coi compagni meno privilegiati; d’altra parte, era stato tanto abile e perseverante da affermarsi nella fiducia di Alex, il Kapo.
Alex aveva mantenuto tutte le sue promesse. Si era dimostrato un bestione violento e infido, corazzato di solida e compatta ignoranza e stupidità, eccezion fatta per il suo fiuto e la sua tecnica di aguzzino esperto e consumato. Non perdeva occasione di proclamarsi fiero del suo sangue puro e del suo triangolo verde, e ostentava un altero disprezzo per i suoi chimici cenciosi e affamati:
-Ihr Doktoren! Ihr Intelligenten! -sghignazzava ogni giorno vedendoli accalcarsi colle gamelle tese alla distribuzione del rancio.
Nei riguardi dei Meister civili era estremamente arrendevole e servile, e con le SS manteneva vincoli di cordiale amicizia.
Era palesemente intimidito dal registro di Kommando e dal rapportino quotidiano delle prestazioni, e questa era stata la via che Pikolo aveva scelta per renderglisi necessario. Era stata un’opera lenta cauta e sottile, che l’intero Kommando aveva seguita per un mese a fiato sospeso; ma alla fine la difesa dell’istrice fu penetrata, e Pikolo confermato nella carica, con soddisfazione di tutti gli interessati.
Per quanto Jean non abusasse della sua posizione, già avevamo potuto constatare che una sua parola, detta nel tono giusto e al momento giusto, aveva grande potere; già più volte era valsa a salvare qualcuno di noi dalla frusta o dalla denunzia alle SS. Da una settimana eravamo amici: ci eravamo scoperti nella eccezionale occasione di un allarme aereo, ma poi, presi dal ritmo feroce del
Lager, non avevamo potuto che salutarci di sfuggita, alle latrine, al lavatoio.
Appeso con una mano alla scala oscillante, mi indicò:
-Aujourd’hui c’est Primo qui viendra avec moi chercher la soupe.
Fino al giorno prima era stato Stern, il transilvano strabico; ora questi era caduto in disgrazia per non so che storia di scope rubate in magazzino, e Pikolo era riuscito ad appoggiare la mia
candidatura come aiuto nell’«Essenholen», nella corvée quotidiana del rancio.
Si arrampicò fuori, ed io lo seguii, sbattendo le ciglia nello splendore del giorno. Faceva tiepido fuori, il sole sollevava dalla terra grassa un leggero odore di vernice e di catrame che mi ricordava una qualche spiaggia estiva della mia infanzia. Pikolo mi diede una delle due stanghe, e ci incamminammo sotto un chiaro cielo di giugno.
Cominciavo a ringraziarlo, ma mi interruppe, non occorreva. Si vedevano i Carpazi coperti di neve. Respirai l’aria fresca, mi sentivo insolitamente leggero.
-Tu es fou de marcher si vite. On a le temps, tu sais -.Il rancio si ritirava a un chilometro di distanza; bisognava poi ritornare con la marmitta di cinquanta chili infilata nelle stanghe. Era un lavoro abbastanza faticoso, però comportava una gradevole marcia di andata senza carico, e l’occasione sempre desiderabile di avvicinarsi alle cucine.
Rallentammo il passo. Pikolo era esperto, aveva scelto accortamente la via in modo che avremmo fatto un lungo giro, camminando almeno un’ora, senza destare sospetti. Parlavamo delle nostre case, di Strasburgo e di Torino, delle nostre letture, dei nostri studi. Delle nostre madri: come si somigliano tutte le madri! Anche sua madre lo rimproverava di non saper mai quanto denaro aveva in tasca; anche sua madre si sarebbe stupita se avesse potuto sapere che se l’era cavata, che giorno per giorno se la cavava.
Passò una SS in bicicletta. È Rudi, il Blockführer. Alt, sull’attenti, togliersi il berretto. -Sale brute, celui-là. Ein ganz gemeiner Hund – Per lui è indifferente parlare francese o tedesco? È indifferente, può pensare in entrambe le lingue. È stato in Liguria un mese, gli piace l’Italia, vorrebbe imparare l’italiano. Io sarei contento di insegnargli l’italiano: non possiamo farlo? Possiamo. Anche subito, una cosa vale l’altra, l’importante è di non perdere tempo, di non sprecare quest’ora.
Passa Limentani, il romano, strascicando i piedi, con una gamella nascosta sotto la giacca. Pikolo sta attento, coglie qualche parola del nostro dialogo e la ripete ridendo: -Zup-pa, cam-po, ac-qua.
Passa Frenkel, la spia. Accelerare il passo, non si sa mai, quello fa il male per il male.
…Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto. …Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia.
Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: Quando…
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica».
E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che si Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «…la piéta Del vecchio padre, né ‘l debito
amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi esatto?
Ma misi me per l’alto mare aperto.
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «Je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso.
L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.
«Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
…Acciò che l’uom più oltre non si metta.
«Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io si acuti…
…e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «… Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima? …
Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
-Ça ne fait rien, vas-y tout de même.
…Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «… la terra lagrimosa diede vento…» no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù come altrui piacque…
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…
Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? -Kraut
und Rüben -.Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rapa: -Choux et navets. -Káposzta és répak.
Infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso.
PRIMO LEVI
LA VERGOGNA
[da I sommersi e i salvati, 1986]
…Hai vergogna perchè sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, piu saggio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini,passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne
avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. È solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico “noi” in un senso molto più ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua.
E’ una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride.
Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una religione sua personale, che però mi è sempre parsa severa e seria….
Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi
di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perchè proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perchè scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: non stavo scrivendo allora , nel 1946, un libro sulla mia prigionia?
Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima: potrei essere vivo al posto di un altro , a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto ucciso. I “salvati” del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della ”zona grigia”, le spie. Non era una regola certa ( non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti….
L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinchè portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; e ancora lo faccio , ogni volta che se ne presenta l’occasione; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta, perchè non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato…
E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. E’ stato detto memorabilmente da
John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che “nessun uomo è un’isola”, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato: così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicità o di connivenza.
Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta….è stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello è salito di anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perché era tutto intorno, in ogni direzione fino all’orizzonte. Non ci era possibile, né abbiamo voluto, essere isole; i giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perchè sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro , ed in loro presenza, ed in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.
PRIMO LEVI
IL SUPERSTITE
[da Ad ora incerta]
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’è.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni”.
4 febbraio 1984
PRIMO LEVI
SHEMA’
[da Ad ora incerta]
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
10 gennaio 1946
PRIMO LEVI
IL SUPERSTITE
[da Ad ora incerta]
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’è.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni”.
4 febbraio 1984
JEAN AMERY
INTELLETTUALE AD AUSCHWITZ
…Ammesso che dell’esperienza della tortura rimanga una conoscenza che vada oltre la pura e semplice dimensione dell’incubo, si tratta di una grande meraviglia e di un senso di estraneità dal mondo che non potranno essere equilibrate da nessuna successiva comunicazione umana. Con stupore il torturato ha sperimentato che in questo mondo l’altro può esistere in quanto sovrano assoluto; il suo dominio si è rivelato essere la facoltà di infliggere dolore e di annientare.
Stupore per l’esistenza dell’altro che nella tortura si impone senza limiti e stupore per ciò che si può diventare: carne e morte. Il torturato non cesserà mai più di meravigliarsi che tutto ciò che, a seconda delle inclinazioni, si può definire la propria anima, il proprio spirito, la propria coscienza o la propria identità, risulta annientato quando nelle articolazioni delle spalle tutto si schianta e frantuma. Che la vita sia fragile, questa ovvia verità l’ha sempre saputa, e anche che sia possibile metterle fine «con un semplice ago», come ha scritto Shakespeare. Ma solo attraverso la tortura ha appreso come sia possibile rendere un essere umano unicamente carne, e trasformarlo così, mentre è ancora in vita, in una preda della morte.
Chi ha subìto la tortura non può più sentire suo il mondo.
L’onta dell’ annientamento non può essere cancellata. La fiducia nel mondo crollata in parte con la prima percossa, ma definitivamente con la tortura, non può essere riconquistata. Nel torturato si accumula lo sgomento di avere vissuto i propri simili come avversi: da questa posizione nessuno riesce a scrutare verso un mondo in cui regni il principio della speranza.
Chi è stato martoriato è consegnato inerme all’angoscia. Sarà essa in futuro a comandare su di lui. L’angoscia: e in aggiunta tutto ciò che abitualmente chiamiamo i risentimenti.
Anch’ essi restano e hanno scarse possibilità di concentrarsi in una spumeggiante e purificante sete di vendetta.
ETTY HILLESUM
LETTERE (1942-1943)
3 luglio 1943
Westerbork
]opie, Klaas, cari amici,
….La miseria che regna qui è davvero indescrivibile. Nelle grandi baracche si vive come topi in una fogna. Si vedono languire molti bambini. Ma sì vedono anche molti bambini sani. Una notte della settimana scorsa è transitato qui un convoglio di prigionieri. Visi diafani e pallidi come la cera. Non ho mai visto tanta stanchezza e sfinimento su un volto. A Westerbork dovevano passare «attraverso la chiusa»: registrazione e ancora registrazione, perquisizione da parte di allampanati N.S.B. quarantena,una piccola via crucis di ore e ore. Alla mattina presto sono stati ammassati in vagoni merci vuoti. Il loro treno è stato ancora sigillato con tavole di legno qui in Olanda: altro ritardo. Poi tre giorni di viaggio a est. Materassi di carta per terra, per i malati.
Per gli altri, vagoni completamente spogli con un barile nel mezzo e circa settanta persone in un vagone chiuso. Ci si può portare solo un tascapane. Mi chiedo quanti di loro arriveranno vivi. E i miei genitori si preparano ad un viaggio simile….
Incontriamo molti parenti che non abbiamo visto, da anni – giuristi, un bibliotecario, ecc., che spingono carriole piene di sabbia e indossano tute goffe e malconce – , ci guardiamo un momento e non diciamo molto. Un giovane e triste ufficiale della gendarmeria mi ha detto una notte in cui doveva partire uno di quei convogli: in una notte simile io perdo due chili e mezzo e non devo far
altro che sentire, vedere e tacere. Per lo stesso motivo non scrivo molto neanch’io. Ma ho perso il filo. Volevo solo dire questo: la miseria che c’è qui è veramente terribile -eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce –non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: la vita è una cosa spendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo contrapporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch’io una piccola parolina….
Parli di suicidio e di madri e figli. Certo che posso capire queste cose, ma trovo che è un argomento malsano. C’è un limite a tutte le sofferenze, forse a un essere umano non è dato di sopportare più di quanto non possa – oltrepassato quel limite, muore da sè. Ogni tanto qui muore qualcuno perchè il suo spirito è a pezzi e non riesce più a capire , in genere sono persone giovani. le persone anziane sono piantate in un terreno più solido e accettano il loro destino con dignità e rassegnazione. Sì, qui si vede una gran varietà di persone e si può osservare il loro atteggiamento verso le questioni più ardue, le questioni ultime.
Proverò a descrivervi come mi sento, ma non so se questa metafora è giusta. Quando un ragno tesse la sua tela, non lancia forse i fili principali davanti a sé e ci si arrampica poi sopra? La strada principale della mia vita è tracciata per un lungo tratto davanti a me e arriva già in un altro mondo. È proprio come se tutte le cose che succedono e che succederanno qui siano già, in qualche modo, date per scontate dentro di me, le ho già vissute e assorbite e già partecipo alla costruzione di una società futura. La vita qui non consuma troppo le mie forze più profonde -fisicamente si va
forse un po’ giù e spesso si è immensamente tristi, ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte.
Vorrei che fosse così anche per voi e per tutti i miei amici, è necessario, dobbiamo ancora condividere molte esperienze e molto lavoro tutti insieme. Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia se ne avete già uno dentro di voi, e per favore non rattristatevi né disperatevi per me, non c’è motivo…
Avrei ancora un desiderio, se non sono indiscreta: un cuscino, per esempio un vecchio cuscino di un divano, questa paglia è proprio un po’ dura alla lunga. Ma dalla provincia si possono solo spedire dei pacchetti formato lettera di non più di due chili, forse un cuscino pesa di più? Forse, se passate da papà Han a Amsterdam -siategli molto vicini vi prego, e portategli anche questa lettera -potreste spedirlo da là? Per il resto, il mio unico desiderio è che stiate bene e che siate lieti, scrivetemi ogni tanto due righe innocenti
Con molto, molto affetto
Etty
( N.S.B. = National-socialistische Beweging, il partito nazista
olandese. Nel linguaggio dei deportati, ”passare attraverso la
chiusa” significava passare per la trafila delle formalità che
precedevano una deportazione )
PAUL CELAN
FUGA DELLA MORTE
[ da Papavero e memoria , 1952]
Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera
noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto
Nella casa vive un uomo che gioca con le serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete
egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano
egli aduna i mastini con un fischio
con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda e adesso suonate perchè si deve ballare
Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al mattino come al meriggio ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
Nella casa vive un uomo che gioca con le serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba
nell’aria chi vi giace non sta stretto
Egli grida puntate più fondo nel cuor della terra e voialtri cantate e suonate
egli trae dalla cintola il ferro lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
voi puntate più fondo le zappe e voi ancora suonate perché si deve ballare
Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca colle serpi
Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Mastro di Germania
grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete come fumo nell’aria
così avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto
Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio la morte è un Mastro di Germania
noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo
la morte è un Mastro di Germania il suo occhio è azzurro
egli ti coglie col piombo ti coglie con mira precisa
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tomba nell’aria
egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Mastro di Germania
I tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith
PAUL CELAN
TERRA DENRO DI LORO
[ da La rosa di nessuno, 1963]
Era terra dentro di loro, ed essi
scavavano.
Essi scavavano e scavavano, così trascorrendo
il dì e la notte. E non lodavano Iddio,
il quale, gli fu detto, tutto questo voleva,
tutto questo, gli fu detto, sapeva.
Essi scavavano e nulla più udivano;
essi non capivano, né crearono un solo canto,
non si diedero una lingua.
Scavavano.
E giunse un silenzio, giunse anche un vortice,
giunsero i mari, tutti.
Io scavo, tu scavi, e scava anche il verme,
e ciò che lì va cantando, dice: Essi scavano.
Oh uno, oh nullo, oh nessuno, oh tu:
Dove s’andava, giacché non s’andava in alcun luogo?
Tu scavi ed io scavo, scavando ti raggiungo:
al dito si ridesta a noi l’anello.
PAUL CELAN
FINESTRA DI BARACCA
[ da La rosa di nessuno, 1963]
L’occhio, buio:
come finestra di baracca. Mette insieme
ciò che fu mondo, che mondo rimane: l’est
ramingo, i
sospesi, gli
uomini-e-giudei,
quella nuvolaglia di popolo, e
magneticamente, con dita mosse dal cuore,
ti sta tirando, Terra:
e tu vieni, vieni,
vi abiteremo, vi abitiamo, una certa cosa
-un respiro? un nome?-
si aggira nella terra orfana,
danzando, rozzamente;
l’ala
d’angelo, gravata da Invisibile,
al piede straziato; assestata,
zavorrando la testa,
da quella grandine nera che
cadde anche lì, a Vitebsk,
-e loro, quelli che l’hanno seminata,
loro la scancellano con il
mimetico artiglio del panzerfaust !-
si aggira, si aggira,
cerca,
cerca sotto,
cerca sopra, lontano, cerca
con l’occhio, tira giù
l’Alpha Centauri, Arturo, vi
aggiunge il raggio,dai sepolcri,
va a Eden e Ghetto, spicca e
assembla la costellazione di cui egli,
l’Uomo, ha bisogno per abitarvi, qui
fra Uomini,
passa in rassegna
le lettere e l’anima mortale-
immortale delle lettere,
va da Aleph e da Jud, ed oltre
costruisce lo scudo di Davide, lo fa
divampare, per una volta,
lo fa spegnere – ma eccolo,
invisibile, se ne sta
presso Alpha e Aleph, presso Jud,
presso gli altri, presso
tutti : in
te
Beth, – cioè
la casa dove è la tavola con
la luce e la luce.
Alla pagina “Archivio della Memoria” sono elencati i principali lavori degli studenti realizzati dal 2003 fino ad oggi.